Perché mio figlio non parla? Perché a scuola lo isolano? Soffrirà per la nostra separazione? Perché passa ore davanti al computer?
Le preoccupazioni che possono spingere un genitore a consultare uno psicologo per il figlio sono molteplici e, nella mia esperienza, le dividerei in alcune grandi categorie: ci sono genitori che arrivano a consultarmi per evidenti problemi nello sviluppo del bambino (ritardo nel linguaggio, ritardo cognitivo, nell’apprendimento di alcune abilità..), oppure ci sono genitori che sono preoccupati dai comportamenti dei figli (a scuola, in famiglia o con i pari non si comportano come dovrebbero o agendo una condotta aggressiva o escludendosi, solo per fare alcuni esempi). Infine ci sono genitori che chiedono un consulto dopo separazioni, adozioni, o traumi specifici.
L’incontro del bambino, caratterizzato da un determinato temperamento, con l’ambiente circostante è qualcosa di assolutamente imprevedibile i cui esiti danno il via a quella “singolarità” che caratterizza ciascun essere umano. In questo incontro così originale e singolare può capitare che ci sia un malessere, che si strutturi un “sintomo”, segno di un “qualcosa che non va” e che non deve essere ignorato.
Purtroppo sono ancora presenti tanti stereotipi sullo psicologo, che ne farebbero un professionista alla stregua di uno psichiatra, quindi di un medico pronto a dar farmaci, pillole ai suoi pazienti. Fortunatamente le cose stanno cambiando e si sta comprendendo che lo psicologo è una figura fondamentale nella diagnosi e nel trattamento di disturbi o problematiche infantili e che utilizza il mezzo più potente a nostra disposizione “la parola”. Dobbiamo poi ricordarci che se c’è qualcosa che non va, negare questo dato di fatto può solo far peggiorare la situazione, quindi se c’è un problema prima si interviene, meglio è!
La prima visita è dedicata all’incontro con i genitori del piccolo per fare un quadro anamnestico, ripercorrere le tappe evolutive del piccolo ed individuare le aree su cui intervenire. In tutto il percorso i genitori saranno sempre sia degli informatori che dei destinatari della terapia: non solo ci aggiornano sul bambino e sul suo comportamento al di fuori del contesto psicoterapico, ma sono anche i destinatari di una serie di suggerimenti e manovre. Lo spazio di terapia diventa un luogo dove poter parlare apertamente delle proprie angosce, immaginate un bambino che è sele
ttivo nell’alimentazione e che rifiuta buona parte del cibo che gli si offre: va da sé che i genitori saranno (giustamente) fortemente angosciati da uno situazione simile.
Ma ora pensiamo al bambino. La terapia rappresenta per il piccolo, così come per gli adulti, un luogo tutto per sé in cui attraverso giochi, colori, materiali specifici si possono dire cose che fanno paura. In questo periodo sto lavorando con un bellissimo bambino proveniente da una struttura del Sud America, in cui è stato adottato da una coppia di italiani. Lindo, lo chiameremo così, viene portato in terapia perché a scuola spesso ha un comportamento turbolento ed aggressivo. Lindo ha alle spalle una storia particolarmente difficile e lo spazio della terapia diventa un posto, anzi il posto, in cui poter rivivere una serie di traumi. Questo non significa che la stanza di terapia diviene un luogo triste, anzi è il contrario, ma è un luogo i n cui si “può” dire tutto quello che non va. E poi tra colori, pupazzi ed invenzioni si aiuta il bambino ad immaginare un futuro meno pauroso.