Diagnosi: punto di partenza o di arrivo?

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Arriva la diagnosi di mio figlio, che fare?

La comunicazione di una diagnosi è vissuta in maniera del tutto differente a seconda di chi la riceve: per alcuni è un punto di arrivo, per altri un punto di partenza, per altri una scusa. La diagnosi è principalmente una spiegazione che va a chiarire il perché di comportamenti che sembrerebbero altrimenti senza senso. Non è un punto di arrivo- sebbene tante volte si ci arrivi dopo una serie di diagnosi non accurate- ma un punto di partenza dal quale bambino e genitori possono ripartire per affrontare le sfide dello Spettro autistico.  Un momento di rabbia, ad esempio, assumerà un significato completamente diverso dopo una diagnosi che ci farà focalizzare sulle coordinate che lo hanno scaturito.

è facile accettare una diagnosi?

La diagnosi è un momento particolarmente intenso anche per i genitori, che non sempre l’accettano. È per me importante, quando svolgo una valutazione, ricordare loro che si è lì, insieme, per cercare di aiutare il figlio. Può capitare, infatti,  che le abilità del minore, durante gli incontri di valutazione vengano maggiorate, esaltate, non dando un quadro corrispondente alla realtà. In questi casi la restituzione e la comunicazione della diagnosi diventa ancora più straziante e soprattutto può servire a poco. Alcuni genitori arrivano già con dei sospetti riguardo all’appartenenza del figlio allo spettro autistico, altri, invece, non ne hanno la più pallida idea. Per alcuni, infatti, il momento successivo alla comunicazione della diagnosi è simile a quello in risposta ad un lutto: dall’incredulità, alla rabbia, fino all’elaborazione. Un processo così elaborato può metterci anche anni per avvenire, ma già acquisire una certa consapevolezza del disturbo del figlio è un buon passo in avanti.

Quando una diagnosi va comunicata anche al figlio?

Ma a quale età si può iniziare a comunicare al figlio qualcosa della diagnosi? Sembrerebbe che il tempo migliore sia quello delle scuole elementari: i bambini ancora non hanno un’idea della “diversità” così strutturata, al contempo iniziano a notare delle differenze tra sé e gli atri ma non ancora così marcate come saranno poi durante l’adolescenza. Può essere utile cogliere le prime domande del bambino sui propri comportamenti, su episodi che mettono in luce le sue difficoltà e cogliere l’occasione per iniziare a parlare dello spettro autistico. Una diagnosi non deve per forza essere comunicata per intero, potrebbe finire per intimorire il bambino, ma comunicarne alcuni aspetti e caratteristiche potrebbe invece essere utile: sottolineare che una determinata difficoltà dipenda da un disturbo ed esistono strategie per smussarla può rassicurare ed attivare il bambino. A volte si crea un’identificazione schiacciante alla diagnosi che può limitare in maniera importante gli avanzamenti del percorso riabilitativo. In che modo? Si ci identifica con il “disabile”, “l’autistico”, “l’Asperger”, quello con cui più di tanto non vale la pena sforzarsi che “tanto è inutile”. Questo grave errore può essere commesso dal bambino, da figure dell’ambiente familiare o anche dal corpo docente.  Anche di fronte ad un “etichetta diagnostica”, (è bene ricordarci che c’è n’è almeno una per ognuno di noi), non dobbiamo mai scordarci di uno dei paradossi della plasticità cerebrale: siamo determinati per essere indeterminati[1]! Il nostro cervello è in continua modificazione, tutto si conserva ed al contempo tutto si modifica favorendo il nostro cambiamento nonostante le nostre “etichette”.

[1] Ansermet F., Magistretti P., A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, 2008, Bollati Boringhieri.

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